di Fabio Albanese - Foto di Antonio Parrinello
Catania, l’Etna, Sant’Agata, Bellini. Su quale sia il rapporto stretto che c’è tra una città, il suo vulcano e le sue glorie, sacre e laiche, non c’è nemmeno bisogno di scomodare i Grandi della letteratura, dal viaggiatore Goethe ai “nostri” Pitrè, Verga, Rapisardi, De Roberto. No, perché basta guardare ai luoghi della festa e alle prime immagini che, ogni anno, di questa festa grandiosa - e incredibile per chi non è catanese – scorrono sotto gli occhi, per rendersi conto che ognuno è parte, essenza stessa, dell’altro.
Quando all’alba del 4 febbraio il busto e le reliquie di Sant’Agata lasciano “a cammaredda”, il piccolo rifugio in cui sono custodite tutto l’anno, attraversando la Cattedrale sfiorano sulla sinistra la tomba di Vincenzo Bellini che, sebbene non fosse uno stinco di santo a leggere le cronache dell’epoca, a Sant’Agata consacrava la sua catanesità e la sua fortuna di musicista. E sul busto della Santa c’è uno dei simboli più alti del Genio musicale della città: quella Croce della Legion d’Onore che a Bellini fu assegnata dopo il trionfo de “I puritani”, in una Parigi che l’aveva adottato e che di lì a qualche mese, era il 1835, ne avrebbe celebrato mestamente il funerale. E poco importa se ad Agata quella croce fu donata successivamente dai familiari di Bellini. Lui non ne aveva avuto il tempo, tanto improvvisa e rapida fu la morte.
Poi Sant’Agata si affaccia sul sagrato della Cattedrale, in una piazza Duomo che alle 7 del mattino assomiglia molto a quella di poche ore prima, della “Sira tri”, la sera precedente dei grandiosi fuochi d’artificio: affollata e festante. E, sulla destra, in fondo ad una spettacolare via Etnea, appare Lei, “a muntagna”, l’Etna che quasi sempre di questi giorni è innevata e, di tanto in tanto e come adesso, pure impennacchiata e in eruzione. Pochi gradini, e nel passaggio tra le braccia sollevate dei portatori della “varetta” e quelle rivolte verso il basso del “mastro della vara” e dei suoi collaboratori che prendono in consegna il busto e lo scrigno con le reliquie e li issano sul fercolo, si consuma l’ultimo momento di questo quadrinomio inscindibile: l’abbraccio con Catania, la sua gente, le urla di devozione che a volte diventano di commozione altre di esaltazione altre ancora quasi spaventano.
E’ la festa di Sant’Agata, la festa dei catanesi. Anche di quelli lontani che tornano apposta per questi tre giorni. E di quelli che tornare non possono. O non vogliono. Perché a volte è meglio guardare da lontano questo grande affresco di catanesità. Da qui non si vedono le tante magagne che nessun miracolo, religioso o laico, sembra riuscirà mai a cancellare.